Centro d'Arte Coreografica "Aglaia" Premio Artistico Letterario "Nicola Mirto" 2005 |
AMEBEO PER ECUBA" di Vito Sorrenti
La costruzione teatrale, l'ansia dialogica, il contrasto fra le "rovine" e la "mano dell'uomo" rivelano una vibrata ricerca innovativa ed evocano un barbaglìo di civiltà. Il poeta auspica, così, il ritorno di una classicheggiante serenità. Dott. Gregorio Napoli |
Centro d'Arte Coreografica "Aglaia" Premio Artistico Letterario "Nicola Mirto" 2005 |
AMEBEO PER I BAMBINI DI BESLAN" di Vito Sorrenti
"Fra docili cerbiatti e cuccioli in festa acquattata e occulta sta in agguato la morte". L'immagine dei cerbiatti e dei cuccioli dovrebbe aprirci a quella immagine tenera ed innocente della vita che solo i bambini possiedono e possono trasmetterci: è una gioia che è alla radice stessa della esistenza o almeno così dovrebbe essere. Ci sfugge il mistero della cattiveria e della crudeltà umana che percorre sentieri di un "tempo chiuso" senza più un futuro e con un passato fatto solo di tragici ricordi, di macerie, in uno sfondo in cui l'uomo stesso diventa "ospite oscuro sulla terra tenebrosa" (Goethe); è l'uomo che muore alla speranza, all'amore, all'esistenza del "Tutto" per lasciarsi andare all'esistenza del "Nulla" e del vuoto fuori e dentro di sé. Anche quei "cerbiatti" e quei "cuccioli" fanno ora parte di questa esistenza oscura, anche loro hanno conosciuto, troppo presto, i sentieri sconnessi di una "terra tenebrosa" e l'orrore di "questa voragine di ferocia" fatta non di mani, non di carezze, non più di sorrisi rassicuranti ma piuttosto di "artigli di acciaio" che artigliano "il cuore alle tenere prede". Di fronte al "sacrificio delle anime pure" (Bollea), il poeta è sconvolto, inarcato su se stesso, dal dolore e dallo strazio che lo ha trafitto e continua a trafiggerlo ogni volta che "il tragico grido del vanghe trafitto si incurva, s'inarca e si raggela nel petto". La tragedia di Beslan ha colpito, turbato, sconvolto tutti. Come si può uccidere un bambino, tanti bambini innocenti? A tanto abissale orrore, l'uomo si riconosce incapace di pronunciare una parola adeguata e scopre tutta la sua profonda impossibilità a reagire. Neanche "l'implorazione estrema della estrema afflizione" potrà mai appagare l'uomo. "Questa orrenda bufera che infuria ove l'astio è in, fiore" lo ha annichilito, confuso, gettato in una profonda disperazione e neanche l'invocazione, la preghiera, l'urlo di tanti "perché" riesce ad allentare "questa stretta che ci schiaccia il cuore". Leggendo questa Lirica non posso fare a meno di ritornare con la mente ai miei studi kafkiani, alle parole del grande Scrittore: "Viviamo in un'epoca malvagia...tutto il mondo è tragico" e ancora: "forse questa è già la dannazione, l'abbandono da parte di Dio, l 'insensatezza" (Kafka). Sta qui il compito dello Scrittore, sta qui anche il compito del Poeta, un "compito profetico", come più volte ho già detto, che ci riveli, si, le insidie del "deserto dell'anima" ma allo stesso tempo ci additi, contro ogni speranza, "la terra promessa" dove sia possibile riscattare così tante sofferenze e tragedie che abbiamo vissuto e incontrato lungo il sentiero del deserto della vita, dove procediamo immersi in un abisso di ombre e di oscurità mentre scorrono davanti ai nostri occhi offesi "gracili passerotti" che "annaspano fra i flutti dell'orrida tempesta" mentre "l'urlo dell'assenza penetra le pietre e scuote alle radici l'anima desolata". Tutto il componimento è intessuto di sensazioni tristi, drammatiche e piene di angoscia; il poeta ora percepisce solo un "senso di vuoto" mentre il suo spirito, inorridito da tanta ferocia, "vaga sconvolto fra i derelitti resti dell'atroce olocausto"; è un percorso obbligato quello dell'autore che cerca di immedesimarsi, per quanto ciò sia possibile, con lo strazio e la paura di quei bambini e anch'egli partecipe del loro dolore, dei loro lutti, cerca "reliquie di affetti", anch'egli "anima desolata... vaga sconvolto" mentre in lontananza, come segno di morte, "rintocca fra i dolenti relitti la musica mesta dei fiori disfatti". Maestro Adriano Angelo Gennai |
Centro d'Arte Coreografica "Aglaia" Premio Artistico Letterario "Nicola Mirto" 2005 |
"TRITTICO DEL DEGRADO E DELL'ODIO" di Vito Sorrenti
"E l'anima brucia d'umano cordoglio per l'uomo al guinzaglio deriso e violato". Attraverso questi versi profondi e drammatici ci sentiamo come immersi in una spontaneità espressiva dura e cruda di una realtà umana umiliata che "giace incurvata sotto il giogo nemico", sotto "l'agghiacciante delirio del terrore occulto" che ne sottolinea l'immediatezza espressiva e quello sforzo lucido che mette a nudo i mali del nostro tempo; una realtà tragica, che infligge ai più deboli e agli innocenti "abusi e sadici strazi", che senza alcuna pietà, neanche dei bambini, "affonda i suoi rostri nelle prede inerti". Il tono, che ne consegue, accenta la lirica in ogni suo verso e rivela un dolore profondo che piaga l'animo del poeta che ora "avvampa d' ira e di pianto per il soffocato lamento della linfa straziata". Non stupisce questo cedimento interiore se non conosciamo la sensibilità profonda e vera del poeta, egli è consapevole delle sofferenze umane ed ogni sua espressione, in sintonia con le vibrazioni interiori di tutto il suo essere, "ora si arresta d'un tratto, ora precipita" (Pirandello), ora si fa commossa fino alle lacrime, ora urla tutto il suo sgomento: "O mondo, rossi di sangue le tue lande infuocate e i tuoi antichi orizzonti, rossi di sangue il pianto dei vinti e il lamento degli innocenti, rosso sangue l'umano sgomento". Non sono esagerazioni tonali, né si tratta di espedienti letterari, volti ad una tecnica "iperespressiva", artificiosa; in questo "trittico del degrado e dell'odio" tutto è vero, nessuna convenzione letteraria, dunque, nessun artificio può generare versi così intensi, profondi e duri allo stesso tempo, per il solo gusto letterario; la ricchezza di "immagini del dolore" e del dramma apre scenari sconvolgenti a cui nessuno può sottrarsi, si tratta di immagini che scorrono davanti agli occhi di tutti ogni giorno e sono immagini che non possono essere ridotte nelle anguste "proporzioni del dramma" perché appartengono alla realtà. Il Poeta ha il dovere di parlare all'uomo come artista e come profeta e le sue parole saranno tanto più vere e forti se egli per primo avrà fatto sue quelle immagini eternandole nel verso poetico, affinché tutti gli uomini di oggi e di domani sappiano che "ora più che mai, la Luce di Dio brandita è dall'uomo come lama tagliente", perché tutti sappiano e facciano memoria di quelle terre "inondate di sangue e di orrido scempio e la cieca violenza ovunque nel mondo". Leggendo questa lirica si avverte un moto di "ribellione interiore", che non è nullificazione totale o alienazione dal mondo per rifugiarsi in una realtà idealizzata, forse migliore, senza le brutture della meschinità umana, ma certamente non vera; il poeta ci scuote fin dal più profondo della nostra anima, ci mette di fronte alla realtà del male e dell'odio, e questa lirica diventa un messaggio che deve aprire ed interrogare la nostra coscienza, perché l'uomo del domani sia davvero migliore e avverta fin d'ora l'esigenza "di un nuovo sentimento della vita", capace di liberarci dallo smarrimento e dallo sgomento di fronte ad un "mondo rosso di sangue", dove "l'agghiacciante delirio del terrore occulto minaccia tempeste di gelido lutto". Posso dire. quindi, con il critico De Castris che proprio il fallimento di questa umanità di fronte alla storia -diventa la condizione della sua arte", il poeta non userà questa arte per fini puramente artistici. estetici ed intellettuali, ma, piuttosto, per rendere l'uomo sempre più consapevole della tragedia umana, del "degrado e dell'odio" in cui versa il mondo. È tempo in cui l'anima e la coscienza di ognuno torni ad ardere "d'umano cordoglio per l'uomo al guinzaglio deriso e violato",solo questa potrà dirsi una coscienza autentica, capace di aprire nuovi orizzonti di pace, di tolleranza, di amore, un nuovo mondo, una nuova storia senza più degrado umano, senza più odio. Maestro Adriano Angelo Gennai |
Centro d'Arte Coreografica "Aglaia"
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"AMEBEO PER EURIDICE" di Vito Sorrenti
"Ghermita / da gelida unghiata / giace Euridice sulla rosa / del suo sangue aggrumato" / E non a requie Orfeo / e vaga per le vie / ebbro di strazio / e di delirio atroce". Immediatamente il lettore è introdotto nei meandri della Mitologia Greca, dove Orfeo, abile suonatore della lira e cantore capace di incantare con il suo melodioso suono "le selve inerti", le quali si "movevano conducendo sugli alberi gli uccelli..." (Seneca), ora non ha "requie e vaga per le vie..." in cerca del suo bene amato, Euridice, morta per un morso di serpente avvelenato, così come racconta il Pindemonte nelle sue "Epistole": "tra l'erba alta ella non vide orrida serpe che del candido piè morte le impresse". Orfeo "ebbro di strazio e di delirio atroce" si porta nell'Ade, nel Regno dei Morti, per cercare di riportarla in vita, e in quelle "Regioni oscure", dove Caronte traghettava i morti; egli canta e suona una melodia di inconfondibile bellezza, chiamando la sua Amata: "Euridice...Euridice...Euridice.. / ripete l'eco fra lingue di fuoco e sinistri boati", laddove i morti gli si facevano intorno ad ogni passo per cercare di afferrarlo "sulle orde di lupi si aggirano armati"; è un canto sconsolato e triste, quello di Orfeo, senza la sua Euridice nessuna musica è possibile, nessun canto "senza le note della mia musa", nessuna danza "senza la grazia della mia rosa", nessun amore "senza te, Euridice"; così sconsolatamente cantava! Quello di Orfeo è dunque "il pianto accorato / dell'anima arata" che "si avvita nel vuoto / di sventrate pareti", eppure quel canto melodioso non aveva perso tutta la sua dolcezza ed espressività, anche se fondato su accordi minori, su arpeggi che "grondano note di dolente velluto"; nell'Ade, quel suono risuonò "fra le pietre / degli insanguinati edifici", tra quelle "sventrate pareti", ``fra lingue di fuoco / e sinistri boati" e tanta abilità mosse a pietà anche il cuore degli abitanti dell'Ade, e tale fu il pianto commosso delle Erinni. Tutto nell'Ade si fermò, al suono della musica di Orfeo, anche negli Inferi il cantore aveva mosso a pietà quei luoghi oscuri dove "pietà non vibra" ove "amor per sempre è perduto "(Gennai). Persefone concesse ad Orfeo la possibilità di portare via con sé Euridice, ma non avrebbe dovuto volgersi a guardarla fino a che non fossero giunti fuori dell'Ade ma, risalendo "l'aspro calle", e ormai prossimo alla luce del giorno, egli fu tentato di volgersi a guardare il volto di Euridice, certo che quella che teneva per mano non fosse la vera Euridice ma un'ombra: in quell'istante la sua Amata ritornò per sempre negli Inferi, di nuovo "inerte e raccolta / nel suo sonno di morta". Persino dopo la stessa sua morte, avvenuta per mano delle Edonidi che avevano gettato il corpo di Orfeo fatto a pezzi nel fiume, Orfeo continuò a chiamare Euridice, l'eco della sua voce e della sua melodia risuonava con "voce spirante", come dirà Virgilio; era un eco ormai spento ma ancora percettibile seppur in lontananza: "morta... morta... morta... / lacrima l'eco" / e ancora: "col mesto rintocco dell'acqua che goccia". In questa lirica, il canto è affidato ad un personaggio-narratore, (in questo caso il poeta), il dramma di Orfeo e di Euridice solitamente spetta al "coro tragico", a cui invece è affidato ilcanto a mo' di lamentazione, accentuando, in un crescendo costante, il dolore di Orfeo "ebbro di strazio e di delirio atroce"; è un canto a tratti polifonico, a tratti monodico, a tratti formulato con un recitativo cantato, per sottolineare meglio lo stato d'animo del cantore mitologico, il suo travaglio di fronte alla perdita dell'unico suo bene. La poesia mostra una simmetria "partiturale" non dissimile dalla struttura corale del canto polifonico, o meglio ancora delle Lamentazioni; il testo è privo di dissonanze, infatti tra un verso e l'altro, tra un verso e il suo opposto, vi è una profonda e significante assonanza. L'incipit funge da "Epigrafe e da programma strutturale" (Renna) e introduce perfettamente nel clima gelido e sconsolato della morte e del dolore, accentuato dalla tonalità minore della melodia: sulle "corde del liuto", gli arpeggi e le modulazioni "grondano di note / di dolente velluto". Non c'è una pluralità dimensionale in questi versi: qui domina incontrastata la dimensione del dramma, dell'acerbo dolore, che "lacrima echi / di vetroso supplizio", dove "spenta è ogni luce", dove anche "la misericordia tace"; è un adagio pianissimo quello cantato dal "Coro", in quell'"Euridice...Euridice...Euridice", il crescendo è appena percettibile, ma profondamente grave, trattenuto, con solide armonie minori che ne rivelano tutta l'intensità e la drammaticità, che ora "risuona ... fra i dirupi / dell'aspra ferocia", mentre "desolato rintocca / per strade deserte / l'amaro singulto / del cuore trafitto". La sostanza musicale di Orfeo rimanda ad una sonorità grave, come ho già detto, ancorché profondamente melodica ed espressiva, non dissimile dalla musica da "Requiem", che rimanda ad "improvvise risonanze, a combinazioni timbriche, a silenzi" (Cresti), dove non vi sono "trasparenti attese" e dove i suoni appaiono talvolta frammentati , sincopati, alternandosi a pause di silenzio e di pianto. Questi versi invitano il lettore ad un "ascolto strutturale", come dirà T. Adorno, dove il suono della lira di Orfeo e il suo canto magico rivivono, in qualche modo, nella struttura corale di questa poesia; l'ascolto, si capisce, è tutto interiore. Il poeta non ha scritto questi versi per ricordare la favola di Orfeo, di questi scritti ce ne sono tanti in giro; tanti poeti e filosofi prima di lui hanno "celebrato" il Canto di Orfeo, comunicando allo stesso tempo simboli, metafore, profondi e nascosti significati, di questo "cantore mitologico"; pagine interminabili sono state scritte da Ovidio, Seneca, Virgilio, e più vicino a noi, da Sant'Agostino, Dante (Inf. IV Limbo), ecc... Nel Medioevo, Orfeo sarà, dunque, il simbolo della Poesia Elegiaca, del canto e, in un certo senso, anche della Teologia in quanto è stato il primo a scendere nell'Ade da vivente, un po' come Dante che percorrerà i tre grandi "Stati dell'Anima", nelle regioni dell'Inferno, del Purgatorio e del Paradiso, non come defunto ma come vivente. Nella Musica, profonda e intensa, c'è l'Opera di Gluck, una musica fatta di "rotondità indissolubili", di suoni leggeri ed espressivi, di una ritmica fluente, che ben si concilia con l'impasto armonico fatto non di suoni irruenti e impetuosi, curvilinei e dissonanti, ma di una musica ad ampio respiro, e si avverte, proprio nei toni gravi e negli accordi minori, il movimento discendente che prelude alla discesa di Orfeo negli Inferi; il canto lo precede, ma è triste e sconsolato, "scuote le rocce, ma non ridesta l'assorta Euridice". Orfeo è solo con se stesso, solo di fronte alla morte che non svela più il volto dell'amata, ora "ghermita da gelida unghiata "e l'incontro con Euridice diventa, adesso, l'incontro-svelamento con la morte: "ma spenta è ogni luce" ed "Euridice giace inerte e raccolta nel suo sonno di morta". Lo stile del poeta sottostà ad una complessità sperimentale linguistica che si evolve di volta in volta, senza mai scadere in eccessi lessicali e retorici; la sua poesia si presenta sempre originale, dotata di un elegante equilibrio delle parti, in una "classica compostezza di stile" che non pecca di "eccessi di intellettualismo" fine a se stesso; il suo è sempre e comunque un vero canto dell'anima, e i suoi versi poggiano su quella "dimensione della memoria" tanta cara ad Ungaretti, a Quasimodo, e a molti poeti del nostro Novecento trascorso. La sua poesia è ben lontana da quella "vitalità agonica" presente nella poesia crepuscolare e decadente; si apre invece, a mio avviso, ad una nuova dimensione comunicativa che va al di là di ogni arida esercitazione linguistica, di memoria montaliana. Egli comunica un messaggio, prodotto di un sofferto "percorso esperenziale" che trova la sua "fons" et il "culmen" nelle regioni più profonde dello Spirito e che diventa un "percorso da testimoniare". Orfeo diventa simbolo di due realtà, la vita e la morte, il canto e il silenzio, la luce e l'oscurità,; quel viaggio del "Divin Cantore" nell'Ade è il viaggio dell'Uomo nei tormenti "dell'anima arata", è il cammino dal visibile (il Mondo) all'Invisibile (L'Ultraterreno), e in questo senso la Poesia di questo nostro Artista "si pone alla frontiera fra l'Essere e il possibile, aspettando il possibile ai limiti della Verità, in quella terra di confine dove materia — (Orfeo) — e spirito — (Euridice) — diventano tuttuno" (Cresti). Prof. Adriano Angelo Gennai |
Centro d'Arte Coreografica "Aglaia" Premio Cultura "Adriano Angelo Gennai"
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"CORALE PER I LUOGHI DOLENTI" di Vito Sorrenti
La rigorosa razionalità delle parti di questa lirica, in un tutto armonico dettato da un sapiente contrappunto, è bilanciata, per così dire, dall'intercalare di "versi antifonali" che riflettono l'organicità di questa stupenda Poesia, il suo tessuto melodico e armonico, che si stendono, in un crescendo di intensità espressiva, in uno spazio solenne e drammatico allo stesso tempo. La "Lamentazione" iniziale, che è quasi sempre un canto corale monodico, ci introduce nel clima dolente e drammatico di questo Canto Poetico, anzi ne è, in un certo senso, il motivo - chiave che fa da controcanto a questa tesa drammaticità, che si avverte, in tutta la sua forza evocativa, fin dai primi versi: "nasce abortita la speranza di pace / fra gli atroci dirupi ove regnano rapaci", a cui fanno eco, in un gioco contrappuntistico, questi altri versi: "E la vita stremata si protende alla luce / fra unghiate feroci e morsi di lupi"', dove giocano un ruolo fondamentale, "speranza-Luce", "rapaci-Morsi di lupi", in cui, salvo l'elemento cantabile che fa capo alla coralità d'insieme (la Lamentazione), si evidenzia, altresì, "l'elemento pulsativo" che sta alla base dei versi, di ogni parola, pronunciati con un crescendo ritmico che rimanda ad un tessuto poetico e sonoro compatto e di forte intensità emotiva. A queste due prime "strofe", segue l'"Antifona centrale", anch'essa affidata ad un coro, e cantata a mo' di lamentazione, sullo stile dei canti ebraici, (o delle lamentazioni del Venerdì Santo ancora in uso in molti Paesi del Sud): "E l'urlo straziato s'inabissa ignoto / nel silenzio di pietra del cuore indurito". In questo "spazio lirico" le vibrazioni emotive interiori non procedono secondo un principio crono-temporale, ossia per successioni, non si tratta di un attimo dopo l'altro, una variabile dopo l'altra, ma piuttosto di una variabile con l'altra, di un attimo con l'altro attimo, in coordinamento compositivo e narrativo uniforme, dettato da precisi e inconfondibili stilemi, è quello che, in altri termini, viene definito "il tempo della topologia"; in questo modo il poeta dà voce a tutte le parti corali e soliste mantenendo un sottofondo corale incalzante, ma sempre pianissimo, in un unicum organico ben coordinato e compatto. Non c'è separazione tra l'una e l'altra voce, tra un verso e l'altro, poiché sono uniti da quella "lamentazione di fondo che si avverte in tutta la lirica, cantata o meno che sia. L'autore dà prova di conoscere molto bene lo "strumento linguistico" poetico e letterario, con una padronanza non comune del lessico, riuscendo così a dare alla parola una sua peculiare forza interna, una musicalità perfettamente percepibile, che emerge in modo particolare nella lettura verbale di questa lirica. In questo modo, il linguaggio poetico del nostro artista assume una dimensionalità "metafisica" che rimanda a sentimenti interiori ed emozioni che ci sconvolgono, che ci lasciano pieni di stupore, e che allo stesso tempo ci interrogano sul piano di una feconda meditazione esistenziale. L'itinerario poetico, dunque, segue il preciso schema della "funzione drammatica", che, come ho detto, ha il suo principio nella "Lamentazione iniziale", già in uso nei Testi Biblici dei Profeti (cfr. Le Lamentazioni di Geremia), o dei Salmi (vedasi: "sui fiumi di Babilonia"); la scelta non è a caso, il "corale dei luoghi dolenti" è una "Lamentazione processionale", in questo caso, all'interno del dramma umano, in un crescendo drammatico sostenuto dalla forza ritmica della parola, che, di verso in verso, pone accenti forti che sottolineano l'intensità interiore del sentimento poetico, di fronte allo scorrere di immagini piene di "orrore, miseria, sgomento", dove ormai "nessun grembo materno germina amore ove il nero stivale calpesta anche i fiori", di fronte a tanto sconvolgimento ogni "speranza di pace" "nasce abortita" e si "inabissa nell'ignoto, / nel silenzio di pietra del cuore indurito". In questa dimensione crudamente realistica, "luce" e "speranza" si trasformano in una realtà statica, inerziale, in una notte senza più alba: "O notte, O nera notte del cuore...", in una lamentazione che non trova conforto, in un cuore che non trova riposo. Il Canto monodico del poeta, sostenuto coralmente da quelle lamentazioni di fondo, si trasforma adesso in un Canto a più voci, una "Poetica polifonica", ma lo spazio, in cui tale Canto si sviluppa, è fitto di lutti, e il grido di chi soffre si tramuta in "sangue purpureo" e "ancora s'affioca la voce / dei vinti e svapora dolente". Qui non siamo nella "poesia del bello stile", di memoria barocca e neoclassica, qui, le voci, il pianto, le lamentazioni hanno un volto e una storia; qui non ci troviamo nemmeno sotto le "luci della ribalta", su un palcoscenico teatrale dove ognuno recita la propria parte, qui si intrecciano stati d'animo, vicende drammatiche, lutti, sofferenze, miseria, popoli oppressi da regimi dittatoriali, guerre, qui "erompe" — in tutta la sua tragicità - "lo strazio / e il grido di aiuto delle anime dilaniate". In questo senso possiamo dire che gioca un ruolo fondamentale la dialettica antitetica di speranza e disperazione, luce e tenebre, vittoria e sconfitta, oppressi ed oppressori, vita e morte. Sia chiaro, non si ravvisa in questi versi una "autofagia spirituale", un animo umbratile del poeta, non è la sua speranza ad essere messa in discussione, poiché questo rifletterebbe un pessimismo ed una angoscia connaturale al suo spirito, cosa che non è; il Poeta esprime, seppur in modo compartecipato, una umanità che va in frantumi e descrive con parole forti, senza "ermetiche chiusure", il dato realistico, quello che è sotto gli occhi di tutti,che ci allontana, nolenti o volenti, dallo sperare in una pace feconda, vera e duratura. Dunque nessun nichilismo, nessuna "attesa deviata", solo il canto di un poeta pellegrino, come Dante, nell'Inferno di una umanità senza più valori, senza più diritto; pellegrino attraverso le mille ulcerazioni dell'animo umano, per aprire un varco ancora possibile che coinvolga l'umanità in una riflessione, in una meditazione, non opprimente e oscura, ma carica di messaggi autentici, di nuovi valori, invitando l'uomo a riflettere e a non dimenticare i mali della storia, per costruire un mondo migliore dove tornino ad essere una esigenza ontologica la Speranza, la Luce, le uniche che possono essere fondamento di una "pace creativa" (Mauriac), in un assunto storico che non sia la "via del Nulla", ma la "via della Verità". È dunque a loro che il poeta si rivolge prima di tutto, a quei "seminatori di lutto" che il poeta definisce, senza mezzi termini, "stirpe infausta": "a che questi rostri / che squarciano il cuore? a che questi martirii? a che questa brama d'imperio / se non solo il potere ma anche la vita è destinata a dileguare?" Anche Kafka provò questi sentimenti di fronte "all'epoca malvagia" del suo tempo: "tutto il mondo è tragico" (...) "la guerra ha messo il mondo a ferro e fuoco" e di fronte a tanto lutto e tragedia si sente come impotente: "Io sono di Pietra". Questa è l'esperienza che deve aver provato anche il nostro autore; in tempi storici diversi la accomuna lo stesso sentimento; anch'egli, come Kafka, si sente "assegnato imperiosamente all'oscurità", è la negazione del diritto, dei diritti umani ad essere messa in discussione, è questa l'unica grande colpa dell'uomo eccitato dalla "brama d'imperio" e di "potere", e il poeta conclude con un eloquente interrogativo: "anche la vita è destinata a dileguare?" Il mistero e la risposta stanno dietro la parola, stanno nel silenzio che è parola, e nella parola che è allo stesso tempo silenzio, ma la parola non può esaurire tutto il dramma interiore del poeta; egli, come Ungaretti, sa bene che "la Parola ci riconduce nella sua scura origine, nella sua oscura portata, al Mistero, lasciandolo tuttavia inconoscibile" (Ungaretti); la risposta, dunque, sta nel cuore di ogni uomo, sta nei volti senza più storia, in quei cadaveri senza memoria, solo nella riflessione di tanta tragedia umana può nascere una nuova speranza di vita e di pace vera. Prof. Adriano Angelo Gennai |
Centro d'Arte Coreografica "Aglaia" Premio Artistico Letterario "Nicola Mirto" 2004 |
"TRITTICO DEL LUTTO" di Vito Sorrenti
"Sento il fragore dei flutti / e la furia della tempesta / M'investe l'impeto delle acque / e lo sgomento dei volti / Mi devasta l'urlo dei derelitti / e il silenzio dei morti". In questi magnifici versi introduttivi si avverte la forza evocatrice della parola, sostenuta, da "sentetiae graves" (pensieri profondi), e si avverte, nondimeno una concinnitas (disposizione armonica) dei versi, dove "numerus non causa quaesitus est" (dove il ritmo non è volutamente ricercato) ma parte integrante dello stato d'animo del poeta. Il dolore è forte, intenso, crudo, di fronte "allo sgomento dei volti", è muto, soffocato, di fronte "al silenzio dei morti", turbato, sconvolto, di fronte a "quegli occhi / velati di lutto", mentre il suo sguardo smarrito, si aggira 'fra gli edifici distrutti", con cuore pieno di pena e di pianto. Il poeta usa "vis verbi" (la forza della parola) per descrivere il suo stato d'animo, usando e dosando sapientemente i "gradus sonorum" (le gradazioni cromatiche del suono), pur di raggiungere il cuore dell'uomo (cordis persequendi), affinché prenda coscienza dell'urlo "del sangue innocente" , (...) "della linfa artigliata", del "brutale supplizio" di un'anima impotente di fronte a tanto male, di "un'anima dilaniata" che "si inabissa nel volto della notte infinita". Si percepisce ora "quandam duritatem in verbis" (una certa durezza nelle parole), ma esse non sono un costrutto artificioso, è la voce del poeta che "erompe straziata dalle dolenti macerie". Questo è, in definitiva, il compito della poesia, la sua più alta "missione letteraria"; essa, soprattutto in questi versi, non canta un mondo astratto e impalpabile, potrà usare metafore e simboli, ma il suo linguaggio, che muove da un mondo interiore, "deve essere calato nel contesto vivo e concreto della Storia, della Società, della Vita" (E. Garin), diversamente non c'è messaggio, non ci sono vere emozioni. I livelli ritmici di questa lirica sono molteplici, tante quante sono le modulazioni dell'anima, lo stesso "colore" del suono, del timbro, varia col variare dello stato d'animo del poeta, pur mantenendo una profonda struttura simmetrica delle parti, un'unica voce corale, in un trasparente contrappunto intercalato dalla monodia che è rivelazione del drammatico esodo dell'uomo all'interno della storia, dove "non si estingue l'umana miseria", dove l'umanità ha bevuto "fino alla feccia / l'esperienza carnale del dolore, / e il fiele dell'ira e il gelo del lutto"; di fronte a quelle "dolenti macerie", ora ci rendiamo conto di essere "morti alla luce", di essere "morti alla grazia". La solitudine del poeta è estrema, e questa lirica, sofferta nel proprio cuore, nasce da quel "silenzio carico di tutti i silenzi" (Cresti), perché è "un silenzio in fiamme" (Cresti). Ora, il poeta, chino sulla croce delle miserie umane, prega ed invita alla preghiera tutta l'umanità, perché ora, più che mai, c'è bisogno di verità, di dialogo, di libertà, di fiducia, di ascesi, di tenerezza; anche l'uomo può e deve raggiungere la profondità profetica del poeta, ma questo sarà possibile se anch'egli saprà avere, dentro di sé, "la nostalgia del silenzio", e allo stesso tempo "il dinamismo della pienezza" da cui ha origine l'arte, la musica, la poesia e, allo stesso tempo, una sensibilità profonda di fronte al dolore umano, una novità interiore di fronte al mistero, una urgenza del cuore di fronte all'amore e alla verità. Solo se il cuore dell'uomo reagisce, con commozione vera, alla tragedia del mondo, della vita, allora il suo cuore sarà credibile e potrà quindi pregare con il poeta, poiché avrà raggiunto quella "dimensione profetica" dell'esperienza del mistero, un nuovo "état de poésie", "che è intuizione dell'essere, rivelazione del mondo, conoscenza oscuramente luminosa" (Maritain): "Dio degli afflitti / illumina l'umano intelletto / e disciogli il ghiaccio / che ci raggela il petto (..) Scendi, o Luce, fra le pareti / dell'affilata ferocia e trasmuta / in anelito di vita il nero latte/ che nutre le nefaste radici". Prof. Adriano Angelo Gennai |
70 EDIZIONE BIENNALE
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"Corale per i luoghi dolenti" di Vito Sorrenti
La particolare impaginazione dei versi recupera il frammentismo caratteristico di molta poesia contemporanea e al tempo stesso fornisce l' idea della frantumazione della esistenza in un rapporto simbolico tra la forma linguistica e il pensiero riflesso, tra l'organizzazione delle parole e il referente oggettivo. Questa procedura consente il recupero di tematiche diverse con una contemplazione a tutto tondo delle qualità dell' esistenza nella realtà contemporanea. Degna di particolare considerazione è poi la qualità del lessico estremamente efficace e comunicativo nella pregnante intensità dei singoli termini. Il Presidente della Giuria Bruno Rosada |
Centro d'Arte Coreografica "Aglaia" Premio Artistico Letterario "Nicola Mirto" 2003
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"CORALE DELL'ASTIO E DEL DOLORE" di Vito Sorrenti
Compito del Poeta, diceva, Puskin, è: "non per le agitazioni della vita, non per la cupidigia e la battaglia, noi siamo nati per l'ispirazione, per i dolci suoni e le preghiere". In questa magnifica lirica si avverte un movimento drammatico di forte temperamento che sprigiona, in tutta la sua forza, dall'animo del Poeta, che certo, non è facile ad abbandoni lirici dettati dalla sola pura estetica ed esteriorità verbale, né persegue quei cedimenti romantici e talvolta crepuscolari che esprimono un dolore ed una amarezza interiore senza risoluzione. Il poeta domina perfettamente i suoi sentimenti, e l'atmosfera che si respira è piena di turbamento, mai però "minaccioso e concitato". La maestria tecnica è piena di virtuosismo, ma il contenuto, l'espressività, l'incisività del messaggio non hanno perso quella "austerità di coscienza artistica" (Lelli). Sulle spalle del poeta c'è il travaglio di una esistenza che si fa strada, ogni giorno, là, "sugli assolati declivi disseminati di rovi", laddove, "il funesto delirio dispiega le ali e più nessuno grida parole d'amore". Quanta solitudine si avverte in questi versi iniziali, quanta angoscia nell'animo del Poeta, quando, volgendo lo sguardo verso le miserie umane, trova nel volto dell'uomo l'immagine di Pilato che "abbandona al supplizio i fautori della pace"; ora il corale si fa più mesto e lascia all'assolo un grido di dolore che fa da controcanto a tutta la lirica, da "basso ostinato" quando irrompe in tutta la sua vigorosa forza, sul corale con questi versi: "E il cuore è morto! Il cuore é morto! Il cuore è morto!". È solitudine, quella del poeta, una profonda, lacerante "solitudine che canta sulla pietra che mi sta sul cuore" (Gunther), mentre di fronte ai suoi occhi scorrono le immagini della storia, il passato e il presente, che contemplano le stesse miserie, gli stessi lutti, lo stesso dolore, la morte! Ora, il Poeta, sconvolto da quei "lampi di gelida luce", si unisce al mesto canto del Salmo 136 (Sui fiumi di Babilonia), quando supplica l'Umanità di non dimenticare gli oltraggi subiti, il dolore dell'esilio in terra straniera: "Non dimenticate, o Figli, le nostre cetre appese ai salici piangenti in Terra di Babilonia, non dimenticate le deportazioni, i campi di sterminio, le fosse comuni, non dimenticate la pena del sangue arso, sparso e disperso dai morsi della disumana ferocia". Il poeta, pellegrino nella storia della tragedia e del dolore umano, "sente per il dolore della folla miserabile, la suprema, l'ineffabile maternità dell'amore" (Palacios), trascinato nelle paludi "dei peggiori barbarismi", nelle più feroci e disumane aberrazioni perpetrate dalle varie dittature, dalla follia dell'uomo mai sazio di potere, ma che ha saziato l'umanità di incubi e di sofferenze indicibili: "Orrido lutto ti abbiamo bevuto fino all'ultima goccia, gelido astio, il dolore dei giusti chiede giustizia..." Questi versi corali rappresentano, a mio avviso, il culmine di tutta la serie di sciagurate azioni, di misfatti, da qui, in un moto ascensionale e corale, il poeta guarda al dolore della Chiesa di Palestina, "ai fiori in boccio orridamente recisi, alle rose sfiorite fra le case distrutte" ....a "quegli occhi dolenti inariditi dal pianto..." a quel "seme di mirto caduto sulla pietra". Il poeta non traligna di fronte ai doveri della sua missione, anche se il suo cuore, unito al cuore dell'Umanità sofferente, "è stanco di lottare e soffrire (...) è stanco di barbarie e macerie (....) è stanco di atroci ferite...." Il Poeta è carico di dolore, ed emerge la sua voce solista dal coro: "O Luce, è stanco il cuore di non trovare pace" . Lo spirito del Poeta cerca invano, nel mondo, la Luce, ma scorge soltanto "Lampi di gelida luce", poiché l'umanità è ancora "avida di lutto" e constata con amarezza che non è lì che deve cercare la Luce; innalzandosi al di sopra delle miserie umane, trova il senso più profondo della vita, della propria esistenza e subito tornano al suo cuore le parole di Gesù sulla Croce: "Padre perdonali perché non sanno quello che fanno". Il suo spirito, ora libero da ogni sofferenza e da ogni astio, può raggiungere finalmente "la Luce eternamente folgorante: Dio" (Giuliani) Prof. Adriano Angelo Gennai |
Centro d'Arte Coreografica "Aglaia" Premio Artistico Letterario "Nicola Mirto" 2003
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"CORALE DELL'ASTIO E DEL DOLORE" di Vito Sorrenti
In questa lirica, parole-chiave: amore e pace, sono contrappuntate da altre parole-chiave: fuoco e deserto, distruzioni e lacerazioni, disumana ferocia, odio e scempio, lutto e astio. Germogli assiderati, boccioli recisi, rose sfiorite, orti succubi di rovi, pallidi olivi predati dai venti, profilano - a occhi dolenti - stanchezze di lotte, orrori, barbarie, macerie, e assenza di pace. Ritmati quasi in coro tragico greco, i versi gridano l'impegno etico-sociale-religioso dell'Autore. Prof. Carlo Cataldo |
Centro d'Arte Coreografica "Aglaia" Premio Artistico Letterario "Nicola Mirto" 2002
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"AMEBEO PER LA PACE" di Vito Sorrenti
"Atroci virate di raggelante ferocia squarciano muri e frantumano vetri...". È una Poesia stupenda, complessa nel suo linguaggio ben strutturato e privo di speculazioni retoriche, di immagini sensazionali, di mirabolanti giochi d'effetto. Il poeta rivive un fatto vero, tragico, che ha sconvolto l'umanità nelle sue fondamenta. In questi versi si avverte una urgenza interiore, cadenzata, qui, da ritmi sobri che esprimono un sentimento di dolore, di stupore di fronte a tanto orrore e il poeta diventa Profeta, Messaggero, Cantore, non di gesta eroiche, ma di un evento drammatico che lo grava di una grande responsabilità verso quella Umanità affranta e delusa, sconvolta da quella "raggelante ferocia", che, ora, cammina sul "filo della memoria" entrando, di diritto, nella storia di quel dolore umano senza futuro. Al di là di ogni studiata tecnica linguistica, vi è in questi versi profondamente sinceri e commossi "universa comprehensi et species orationis clausa et terminata" che ci avvicina al dolore del poeta, riconducibile ad un verso "enucleatum", vero, intenso, drammatico, ben lontano dall'essere "ornatum copiosumque". Le sue parole riflettono la drammaticità dell'accaduto e pertanto non sono "translata atque mutata" per un uso linguistico verboso e retorico. Nell'andamento rapsodico di questa lirica s'alternano sentimenti contrastanti di dolore, di rassegnazione, di lotta, di preghiera, ma né il poeta, né l'umanità può niente di fronte alla raggelante follia di chi, in nome di Dio, ha ancora una volta "edificato l'edificio dell'Uomo (...) sulla pena e sulla disumana ferocia". Il poeta non sa più scegliere tra la parola e il silenzio, poiché l'una è soffocata da "l'urlo impietrito del cuore straziato", mentre il silenzio, carico di immagini rovinose e drammatiche, "s'avvita nel vuoto di vetrose rovine". La Parola non basta più e il Silenzio, tanto desiderato dai poeti, "brucia l'anima ottenebrata da sedicenti profeti avidi di strazio", mentre negli occhi dell'umanità attonita e atterrita, scorrono, come in un film dagli effetti speciali, atroci immagini "di fuoco e di fumo" che "divampano insieme alla muta disperazione", immersa in una vitalità agonica che, ora, "rintocca il gelido lutto della farfalla trafitta da mani uncinate". In questi versi, a mio avviso, è proprio la passionalità e la forza del sentimento a giustificare l'azione, è l'urlo lacerante del poeta, che nell'oscurità del dolore e nel pianto senza conforto si domanda: "O Luce, dov'è la sacralità della vita? Dov'è il Dio della Giustizia", eppure, di fronte alla forza di questa invocazione, all'accorato pianto dell'anima, c'è come un silenzio rotto solo dalle terribili esplosioni che si perpetuano in immagini di fuoco, "volute di fumo", che ci separano dalla luce del giorno che "s'affioca fra le insanguinate rovine ove accima e dirama la vetrosa desolazione". Non sono immagini irreali che appartengono alla sfera onirica e della fantasticheria, non siamo nel "mondo delle visioni" interiori, incrudelite dal pessimismo di un poeta; quell' 11 Settembre, quelle immagini, fin troppo reali, sono passate davanti ai nostri occhi e per la prima volta le tenebre del terrore e della paura hanno preso il sopravvento nel cuore dell'Uomo senza alcuna possibilità di appellarsi alla ragione del cuore e alle suggestioni dell'anima, poiché, in uno strazio indicibile e soffocato dal dolore e dall'impotenza, Egli percepisce un "gelido lutto" mentre il suo cuore geme "fra affetti in frantumi e abissi di pena". "Dov'è il Dio della Giustizia?" aveva gridato il poeta, affranto e umiliato da tanto male e da tanta sofferenza, quale ragione può giustificare tutto questo? "Nessuna ragione, se vuole essere umana, può edificare sul sangue dell'Uomo". Ora nel cuore uncinato del poeta, dove ancora "accima e dirama la vetrosa desolazione", nasce una preghiera a quel Dio della Giustizia tanto cercato, Lui solo vero ed unico conforto alle nostre incertezze: "O Luce divina, dipana il groviglio feroce che aggroviglia la vita, riversa la Tua luce sulle anime inaridite e dissolvi lo strazio che brucia nel cuore in ricordi di verde dolore" non più un canto Pastorale a voci alternanti che si rincorrono e si rispondono, ma un canto a più voci, Corale, che sgorga dal cuore dell'Umanità in un grande Amebeo per la Pace che risuoni per sempre nella memoria del Mondo, nella Storia dì una nuova Umanità. Prof. Adriano Angelo Gennai |
Centro d'Arte Coreografica "Aglaia" Premio Artistico Letterario "Nicola Mirto" 2002
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"AMEBEO PER LA PACE" di Vito Sorrenti
Si rinvengono, in questa lirica, una singolare trama dialogica e un'antitradizionale architettura metrica. Con esse il Poeta addensa e sfrangia "chiavi" interpretative e definitorie dell'umana "belluinità", rilevandone sia gli spettacolari tratti visivi, sia i tracimanti effetti etici di essa. Di rincontro alle eccitate assurdità, Egli accampa depresse risposte agli esagitati interrogativi di una "voce fuori campo", che implora, da una "Luce divina", "luce" da riversare su "anime inaridite" e nelle quali di "verde" è rimasto solo il "dolore". Prof.re Carlo Cataldo |